UNIVERSITA’ delle TRE ETA’ – SANREMO

Anno Accademico 2012-2013

 

Lezione Inaugurale – 11 gennaio 2013 

prof. Pierangelo Beltramino

 

“LE PAROLE, I CONCETTI, LA TORRE DI BABELE”

 

                Argomento di questa nostra conversazione è il mistero della parola costruttrice del pensiero e spirito creativo di ogni cultura. Mi piace dare inizio alla nostra piccola, anche se ambiziosa indagine, con la parola di Saffo, conservata da un breve frammento,

 

“le stelle intorno alla bella luna

celano il volto luminoso

quando essa piena massimamente splende

sulla terra tutta …”

 

Ad una lettura superficiale, diremmo che il breve frustulo di poesia, altro non è se non la descrizione, forse il ricordo, di un plenilunio, che le parole di Saffo rievocano “a posteriori”: qui, in realtà, si tratta non del paesaggio di un generico plenilunio, ammirato e descritto da Saffo in un tempo successivo, ma evocazione del Plenilunio: qui la Parola Plenilunio, scritta da noi con la iniziale maiuscola, esprime il plenilunio in sé, in qualche modo lo crea, tanto più che questi brevi versi facevano forse parte di una similitudine che voleva rappresentare la bellezza suprema di un fanciulla del thiasos di Saffo, così intensa da offuscare quella, pur notevole, delle altre fanciulle come la luna nel suo pieno fa impallidire le stelle. Saffo usa, della parola, la forza creatrice e formatrice, che fa essere le cose, in questo caso, il Plenilunio, è forma della cosa, quasi idea platonica.

La parola non è simbolo, descrizione di qualcosa che precede, ma forma creatrice, modello primo e intellettuale, del molteplice, il Plenilunio che ricapitola tutti i pleniluni. Ci sostiene in questa convinzione non solo la dottrina platonica delle idee, ma un altro testo venerando, il prologo del Vangelo di Giovanni, che così traduciamo:

 

In principio era la Parola

e la Parola era presso Dio

e la Parola era Dio.

Essa era, in principio, presso Dio:

tutto è stato fatto per mezzo suo

e senza di essa nulla è stato fatto.

 

                La parola dunque era in principio, anzi era il Principio, la Parola viene prima e fa essere tutte le cose, semplicemente risuonando nel nulla come leggiamo nella Genesi:

 

Dio disse: “sia luce”. E luce fu.

 

                La parola dunque trasmette all’uomo la forza creatrice, e lo rende partecipe dell’opera della creazione, è la parola che si fa pensiero, scienza, poesia, amore. La parola quindi deve essere rispettata, riscattata da ogni ombra di inganno e di falsità, non deve diventare strumento di ambizioni egoistiche, mezzo per acquistare potere, ricchezza, piaceri come vediamo spesso accadere ogni giorno.

                Rispettare la parola significa usarla nel suo significato chiaro e originale, riconoscibile da tutti: non deve diventare gergo di oligarchie e di gruppi, non deve essere vanificata in vuoto chiacchericcio, come accade troppo frequentemente, per non dire sempre, con i mezzi di comunicazione di massa, i quali comunicano il contrario della parola, che non è il silenzio, ma il nulla. Spesso anche in libri, che vanno per la maggiore, troviamo cumuli di parole svuotate di senso e di dignità e leggendole sentiamo risuonare la semplice ma significativa battuta di Amleto, in risposta al vaniloquio di Polonio.

 

Polonio: Che state leggendo, monsignore?

Amleto: Parole, parole, parole.

 

                Tutti conosciamo il racconto biblico della costruzione della torre di Babele, costruzione voluta da uomini ambiziosi e empi che, stabilitisi in Mesopotamia, vollero iniziare una torre così alta da raggiungere il cielo e imporre così il loro potere su tutta la terra, impresa possibile per un popolo che aveva lingua unica e conosceva la tecnica nuova dei mattoni cotti al fuoco che consentivano costruzioni elevatissime con materiali più leggeri dei blocchi di pietra. Dio volle punire quella umana arroganza confondendo la loro lingua unica e disperdendoli su tutta la terra.

                Così racconta il libro biblico della Genesi al capitolo undicesimo e così il nome di Babele significò la moltiplicazione dei linguaggi e l’impossibilità di comunicare un progetto unitario. La torre di Babele compare anche nel titolo di questa conversazione, con un’intenzione interpretativa un po’ diversa da quella comune della confusione delle lingue come punizione e dispersione. La torre non era nata dall’arroganza del popolo, ma da quella di sovrani che volevano essere considerati dei e volevano imporre un sistema politico-religioso che escludesse ogni alterità, fondato, come era, anche sull’imposizione di un’unica lingua, per dominare un popolo di schiavi da costringere alla faticosa operazione della costruzione dei mattoni di terracotta.

                Dio volle punire l’empietà dei sovrani, ma per il popolo l’azione divina fu liberazione dalla schiavitù, fu il dono delle lingue che esprimevano non la monotonia di un regime unico e di una religione imposta ma la varietà, creatrice di culture diverse. Così qui s’interpreta un racconto leggendario sì, ma fondato su una realtà storica, riscoperta dalla scienza archeologica; nell’antica città di Babilonia si poteva ammirare non una torre ma una “ziqqurat” alta ben 91 metri che i babilonesi chiamarono Etemenanki, cioè: “casa fondamento del cielo e della terra”, in lingua accadica.

                Torniamo alle parole di Saffo, che ricordano quelle di Omero, nel finale del libro ottavo dell’Iliade:

 

Come quando nel cielo le stelle, intorno alla splendente luna,

si mostrano lucenti, se l’aria è senza vento,

e si scorgono tutte le vette e le cime estreme

e le valli: giù dal cielo si spalanca l’etra infinito,

si vedono tutte le stelle e gode nel cuore il pastore,

tanti, tra le navi e l’acqua dello Xanto, fuochi

si scorgevano accesi dai Troiani di fronte a Ilio …

 

                Anche qui si tratta di una similitudine tra le stelle spendenti nel plenilunio e i fuochi che numerosi illuminano la pianura di Troia, tra il mare e il fiume Xanto, e riscaldano i soldati troiani che si riposano dopo la battaglia. Saffo sembra far osservare che, durante il plenilunio, la luce delle stelle si affievolisce fino a scomparire, vinta dallo splendore della luna. Ma in Omero le stelle e la luna creano una situazione di magico incanto, che rallegra il cuore ingenuo, e incantato del misterioso pastore, che umanizza lo spettacolo meraviglioso e che potrebbe alludere allo stesso poeta in un momento di sublime poesia.

                La parola è la radice del pensiero, il pensiero è costituito da parole che sono idee primarie, non espressioni secondarie e derivate e che, come tali, possono essere abusate e corrotte. Il pensiero è, per così dire, un colloquio interiore dell’anima che, come ci insegna Agostino, nel Libro XIII° delle sue “Confessioni”, è unità di distinti: l’essere, il conoscere e il volere.

                Essere, conoscere e volere sono presenti in ciascuno di noi e costituiscono immagine di ogni possibile vita, l’unità nella differenza: anche le parole sono numerose e diverse, ma, pur essendo tali, devono trovare un’unità che ne garantisca la verità e la necessità. Le parole, poi, non sono solo quelle che indichiamo con tale termine, sono parole tutte le forme di espressione di pensiero e di sentimento come i suoni della musica, i colori e le linee della pittura, le forme della scultura, gli spazi dell’architettura per rimanere nell’ambito delle arti, per cui diciamo che la musica è un linguaggio, è “una rivelazione più profonda di ogni saggezza e di ogni filosofia …” come scriveva Beethoven, nel 1810, a Bettina Brentano.

                Le parole dei poeti hanno una loro particolare magia, quella di rivelare la verità e la bellezza delle cose, dando loro senso e significato, che rimarrebbe nascoso se un poeta-profeta, un Virgilio ad esempio, non lo rivelasse, come avviene in un passo della sua prima bucolica: un pastore, Melibeo, dice all’amico Titiro, pastore e cantore, la sua meraviglia quando la vita della campagna sembrò come sospresa e interrotta durane una lunga assenza di Titiro; non solo Amarilli, l’amore del poeta, si lasciò vincere dalla tristezza, trascurando il lavoro, ma la natura stessa sembrò piangere l’assenza di Titiro, il poeta, i cui canti le davano senso e bellezza:

               

                Melibeo: “Mi stupiva, Amarilli, il tuo mesto invocare gli dei,

il tuo lasciare che i frutti rimanessero appesi ai rami:

Titiro era assente! Perfino i pini, Titiro,

persino le fonti e questi stessi cespugli t’invocavano”

 

                C’è un rapporto diretto tra parola e realtà: non si deve abusare della parola, che dà senso e verità al nostro esistere, la parola è il pensiero, è il seme della filosofia. La parola non deve essere manipolata arbitrariamente, per fini diversi da quelli postulati dalla sua natura ideale: quanti usi distorti della parola vediamo ogni giorno nella società, nei mezzi di comunicazione, nella pseudo politica e altrove, per finalità di potere, di arricchimento, di inganno.

                Il rispetto per la parola è condizione essenziale per la buona politica volta al bene comune, politica che deriva il suo nome da Polis, la città, il luogo dei cittadini, e dovrebbe essere sinonimo di buon governo. Platone rifiuta la sofistica, intesa come oratoria asservita agli interessi egoistici ed ambiziosi, particolarmente pericolosi, specie quando si ammantano di parole come eunomia, legalità, eleutheria, libertà, democratia, che non ha bisogno di traduzione, ma che è stata responsabile della condanna a morte di Socrate, sì la forma di governo di cui si vantava Atene, la democrazia, uccise col veleno Socrate, il quale, per amore della verità, svelava la falsa scienza dei cosiddetti sapienti, insegnava che la verità si ritrova nell’intimo della coscienza, e ripeteva la necessità di conoscere se stesso secondo il detto del dio delfico. Aristotele ci tramanda che Socrate conobbe l’esigenza di ricercare nel molteplice un concetto unificante, il concetto, che è la parola interiore, quella che dalle diverse forme di bellezza esprime con la parola “Il bello” un concetto unitario. Socrate vive per noi nell’epoca di Platone, nella quale il dialogo socratico, che è il luogo eletto della parola, rivive nella forma perfetta del dialogo platonico. In alcuni dei dialoghi platonici rivive lo spirito di Socrate, certe pagine sembrano restituirci il suono delle parole socratiche, come nelle ultime pagine del Fedone, quando Socrate prima di bere la cicuta, ubbidendo così alle leggi della "pσlis" accoglie la morte come viatico verso il mondo della vera giustizia, della libertà, della sapienza rivelatrice.

                Le parole, come la musica, nascono dal silenzio, che è condizione essenziale, per quanto possa sembrare strano, della vita delle parole: nate dal silenzio nel silenzio tornano, perché vita della parola non è solo essere pronunciata, ma, soprattutto, ascoltata. “Scemà Israel” ripete la scrittura per la parola di Dio, ma anche le parole umane, che dicono amore, libertà, buon governo, fratellanza devono essere accolte in rispettoso silenzio, se no diventano il blaterare dei retori, per parole inutili, words, words, words (parole, parole, parole), come quelle che Amleto disprezza; solo nell’ascolto attendo possiamo cogliere, nella verità, il messaggio autentico delle parole. Non è nel frastuono, che ci ingombra ogni giorno le orecchie, con la retorica delle piazze, che si può costruire la città sognata dai grandi spiriti come Socrate, Platone, Agostino, Erasmo e mille altri e perché non anche dai poeti, dai musicisti come Beethoven, che nel coro della sua nona sinfonia celebra un’altra grande Parola: “Freude”, gioia che non è vana allegria, ma divina beatitudine che gli uomini raggiungono nella fratellanza, come ci rivela anche, nella sua “Ginestra” il nostro Leopardi, sognando una società nuova nella quale gli uomini “tutti fra sé confederati” si stringono in un abbraccio di ritrovata umana solidarietà, di immensa reciproca pietà di fronte a quello che Cesare Pavese, un giorno, chiamerà il mestiere di vivere.